Il Fascino di una Villa Antica e l'incanto che ne rimane (a seguire racconto: "Domenica Sportiva")


Nell’estrema periferia di Corato, il paese in cui vivo, c’era una villa abbandonata. La chiamavano Villa Capano, dal nome della famiglia nobiliare a cui era appartenuta, e si trovava all’interno di fitta boscaglia misteriosamente sopravvissuta, almeno fino alla metà degli anni Novanta, alla cementificazione della zona. Alberi secolari svettavano imponenti verso l’alto come pilastri volti a sostenere la pineta che adombrava l’intera area, mentre ai piedi degli stessi si allargavano cespugli alti fino a due metri fitti di erbacce, piante singolari e, nei periodi di primavera, di fiori colorati. 


Per arrivare alla villa c’erano tre accessi. Il primo era costituito da due colonne ottocentesche in pietra le quali sancivano l’inizio di un viale che tagliava proprio per l’interno della boscaglia. Bastava passarci davanti per avere già un colpo d’occhio su un mondo totalmente diverso rispetto alle palazzine squadrate che si erigevano a qualche decina di metri da lì. Infatti le colonne sorgevano, e sorgono (in quanto protette dalla sovrintendenza delle Belle Arti), su una arteria importante del paese denominata via Castel del Monte (si, la stessa che porta al celebre castello). Oltre le imponenti colonne si allungava il viale, sterrato e coperto da una galleria di rami e foglie, per una cinquantina di metri. Alla fine del viale si intravedeva la scalinata d’accesso che, impreziosita da un’inferriata dalle forme sinuose, curvava elegantemente verso l’ingresso principale al primo piano. Sopra la scala invece si intravedeva una finestra che, incorniciata da un bordo dai disegni geometrici, annidava al suo interno il buio più pesto che si possa mai immaginare. 
Gli altri due ingressi invece erano sentieri laterali che serpeggiavano tra mura di terra e siepi e le quelle della villa. Erano così stretti che ci passava una persona alla volta e non a caso venivano calcati da coppiette e liceali in fuga dalle lezioni. 
In quella villa vi era bellezza ma anche magia. Si, perché proprio per via della “foresta” che la custodiva, dello stato di abbandono in cui verteva e delle sue forme ottocentesche (forme molto care alla letteratura e al cinema horror), ispirava molte storie e dicerie. Si parlava di un pianoforte che suonava in piena notte, di folletti dispettosi che abitavano tra le siepi, di strane creature. E, inevitabilmente, anche di drogati e gente di malaffare che si radunavano lì proprio di notte. 
La storia successiva di questa villa è forse uguale a quella di tante altre. L’area boschiva, con i suoi alberi secolari, fu interamente sradicata. La villa sopravvisse ma nel peggiore dei modi: fu interamente stuccata al punto da coprire interamente la pietra ottocentesca, le raffinate scalinate centrali furono abbattute e un muro di cemento la cinse definitivamente. Divenne la residenza di una famiglia di costruttori locali. 
Oggi le colonne (anche queste sopravvissute come già detto) spuntano sul ciglio della strada, lungo il marciapiede, come ruderi estranei all’aria circostante, aprendo la strada su una schiera di palazzi che a loro volta sorgono dove prima si sviluppava la boscaglia. Infondo alla strada si erge il muro oltre il quale si intravede appena una residenza piuttosto anonima.  


Villa Capano ha suscitato un certo fascino. Un fascino oscuro, certo, ma capace di diventare fucina di immagini, storie, impressioni che in qualche modo risiedono nel cuore di molte generazioni. Per quella che è stata, è oggi un tassello importante della mia fantasia e non è un caso che diversi anni fa scrissi un racconto che restituiva a pieno, almeno credo, il forte impatto che essa ha avuto sulla mia creatività. Si intitola “Domenica Sportiva”. 
Buona lettura.  



Domenica sportiva

La saracinesca si rompe! - Urlò il diavolo uscendo dal portico alle spalle del masso che fungeva da palo - A Furia di colpirla si rompe! - Continuò avanzando con quella corporatura bassa ma così massiccia da far paura.
Il portiere si lanciò subito verso il centro del campo per stabilire distanze di sicurezza.
Ilario si portò tra le braccia il pallone e indietreggiò.
Prima o poi vi porterò tutti a villa Capuani! - Minacciò - E saranno cazzi vostri!
Quelle parole risuonarono nell’aria come la maledizione del peggior stregone. Con quegli occhi grandi da sembrare palle da pingpong lanciò un ultimo sguardo di sfida verso tutti, radunati al centro del campo come pinguini al riparo dal gelo. Poi con la mano destra fece cenno che le avrebbe suonate a tutti loro e tornò da dove era venuto.
Ognuno riconquistò le proprie posizioni e tra loro Paolo, tornando in difesa, pensò che per fortuna quella domenica era salva. Per il momento…
Nelle domeniche pomeriggio in cui Ibrahimovic incantava con goal sovrumani, Lavezzi a Napoli diventava la reincarnazione calcistica di Maradona e Cassano infervorava i tifosi tra Genova e Bari, i ragazzini del cortile di via Guerrazzi disputavano la loro partita. Giocavano fino allo strenuo delle forze e fino a quando c’era luce se il diavolo non li squarciava il pallone. Per tutti loro Attilio, l’intoccabile cugino del sindaco Curzo, era il diavolo. Lo chiamavano così un po’ per il suo carattere burbero e un po’ per i diavoletti di bronzo che si ergevano sulle colonne all’ingresso della sua villa. Ogni volta terminava la sfuriata minacciando tutti di portarli a villa Capuani. I grandi affermavano che lui lo ripeteva ogni volta per vantarsi delle sue proprietà, ma ai ragazzi faceva comunque paura.
Erano più o meno sempre gli stessi, quelli delle zona, quelli che durante la settimana tra scuola e compiti trovavano sempre il tempo per qualche azione alla tedesca. Sebastiano, che a furia di farsi investire dalle auto si era ritrovato due gambe così elastiche da non permettergli alcun controllo della palla, Ilario, il maradona de noialtri, forte dell’esperienza delle partite di calcio con suo fratello maggiore, Mario, una vera schiappa a calcio ma sempre conteso dai capitani perché speravano in un suo invito a giocare all’ultima playstation, Claudio e suo fratello piccolo Mariano. Infine c’era lui, Paolo, il nostro eroe, dalle prestazioni alterne ma guai a tutti se capitava nella giornata giusta. Alle cinque in punto della domenica però il gruppo s’ingrandiva grazie a qualche amico che giungeva da altre palazzine. Gli stranieri. Diventavano così tanti da comporre squadre di addirittura sei giocatori. Per questo motivo la partita della domenica pomeriggio era la più competitiva della settimana. Nessuno poteva mancare.
A quanto stavamo? - Urlò Ilario.
Dodici a sei per noi - rispose prontamente Paolo.
Cosa? - Fece Ilario stizzito - Voi state a undici!
E via ad elencare tutti i gol.

Paolo stringeva la mano di sua madre a sinistra e quella di suo padre a destra. Con loro avanzava lungo il solito tragitto che portava alla chiesa di San Giacomo, una larga strada di estrema periferia che si allungava tra una fila di palazzi a destra e un fazzoletto di terra che finiva inghiottito dalla città. Sulla carreggiata scorrevano auto nelle quali viaggiavano adulti e anziani ben vestiti, pronti per la messa della domenica pomeriggio. Nessuno poteva mancare alla messa della domenica pomeriggio. Era quella a cui partecipavano le persone per bene come il sindaco e Mimì il macellaio. Giunti all’altezza di villa Capuani i genitori svoltarono alla sinistra nel perfetto silenzio. Paolo osservò le statue demoniache che si ergevano sulle colonne dell’ingresso, guardò il loro sorriso malefico e insieme varcarono il cancello in ferro battuto. Con indifferenza i genitori presero a percorrere il folto viale della villa. E lui con loro.

Quel pomeriggio non le diede subito ascolto. Era in atto il contropiede degli avversari e Paolo non poteva distrarsi. Sebastiano, in una delle rare giornate a lui positive, intercettò la palla che però cadde tra i piedi di Ilario, loro avversario. La madre lo richiamò per la seconda volta ma la situazione era ancora critica. Ilario, smarcò con tecnica il primo, il secondo giocatore, resse lo scontro con Sebastiano grazie alla sua stazza e tirò. Paolo allungò il piede e deviò la palla in calcio d’angolo. Un bravo provenne dalle sue spalle. Alzò lo sguardo verso il balcone del secondo piano del palazzo bianco a sinistra. La madre gli fece cenno con la mano di salire.
Perché? - Chiese facendo finta di non sapere, preparandosi ad una resistenza che, a prescindere dall’esito, sapeva sarebbe stata eroica.

Mamma, dove stiamo andando? - Chiese guardando il viale allungarsi coperto da folte chiome fino alla scalinata diroccata della villa.
A messa - disse tenendo lo sguardo fisso in avanti. Gli rispose fredda come se in realtà stessero percorrendo il solito tragitto. Paolo tacque e tenendo salde le mani dei genitori proseguì lungo il viale. Tutto giaceva in un silenzio sovrumano. Neanche i loro passi provocavano il minimo rumore. La villa diroccata, dalle persiane cadenti, dalla facciata tempestata di squarci, dalle decorazioni esterne ridotte a minimi residui, si faceva sempre più vicina. E la sua aria sinistra lo inquietava sempre di più. Ripose la domanda alla madre.
A messa - rispose questa volta un po’ infastidita, mantenendo lo sguardo verso la facciata della villa come se fosse ipnotizzata. 
Ma la chiesa non è di qui. Dovevamo proseguire dritto…
No, è di qui la chiesa - asserì con autorità. Paolo sentì i brividi percorrergli la schiena. Da un momento all’altro le tenebre si imposero sul giorno come se qualcuno avesse spento la luce del sole da un interruttore. Si guardò attorno e non vide altro che robusti tronchi dalle forme mostruose elevarsi in alto e coprirlo con le loro imponenti chiome. Al di là dei tronchi il buio assoluto lo elettrizzava dalla paura. Guardò in avanti e si rese conto che la villa, con i suoi due piani e con la doppia scalinata deturpata dal tempo, era ormai vicina, lugubre come non mai.
 
Quando non era in giornata si rassegnava alla volontà della madre abbassando il capo e prendendo la via del portone. Quel pomeriggio invece era l’eroe della giornata: dalle sue parti gli attaccanti trovavano fil da torcere. Persino Ilario si era lamentato della sua resistenza inespugnabile. I soprannomi eroici provenivano da destra e sinistra: Cannavaro, Nesta, Maicon. Ma non solo. In due sue discese sulla destra aveva realizzato due goal: in uno dei quali aveva marcato Ilario e spiazzato il portiere. Era un dio.
Dobbiamo andare a messa - fece la madre con ovvietà dal balcone.
Non posso venire oggi, le rispose abbassando subito lo sguardo e voltandole le spalle. Oggi mamma, pensò, Non mi devi disturbare.
Non posso venire? - Ripeté la madre con tono minaccioso - Sali sopra subito!
Verrò la prossima domenica - Detto questo fece segno ai compagni di riprendere a giocare, nel disperato tentativo di fuggire la discussione. Con la complicità dei compagni il gioco riprese. Paolo con uno dei rari colpi di testa ben riusciti spazzò la palla fuori dall’aria generando il contropiede. La madre urlò il suo nome altre due volte. Uno dei suoi tirò, il portiere avversario respinse ma la palla cadde tra i piedi di Sebastiano che con un pallonetto scavalcò il portiere di pochi centimetri. Quella era una grande giornata anche per Sebastiano. Cosa ancora più rara. Festeggiarono il tredicesimo gol e la madre, innervosita, rientrò in casa.

Tentò di tirare i genitori con la forza verso l’uscita. Provò a fuggire ma la loro stretta glielo impedì. Scoppiò a piangere all’idea che lo avrebbero appeso ad uno di quegli alberi in attesa che venisse la strega per mangiarselo. Proprio come diceva Attilio il diavolo. All’ennesima predica la madre chinò lentamente il capo verso lui e lo fissò sgranando occhi mai così grandi. Si voltò verso il padre e notò che anche lui lo fissava con una brutta tempra in faccia. I suoi occhi erano sinistri e grandi come palle da pingpong.
Non riuscì a dir nulla perché la paura gli bloccò la bocca. Si fermarono. Avanti a loro, appesi con delle corde all’ultima quercia, vi erano una moltitudine di corpi umani. Sembravano ragazzi più o meno della sua età che al posto del capo avevano un pallone sgonfio. Forse squarciato. Supersantos rossi per la precisione. 

Pochi minuti dopo vide giungere il padre come un mastino. Arrivò alto e grande, con passo cadenzato e col suo tipico sguardo infuriato di quando era veramente incazzato. - Vieni qua! - Urlò giunto a pochi passi da lui, irrompendo nel campo come un tifoso scalmanato. Solo che a fermare quel tifoso non c’era nessuno. Anzi le due squadre non potevano fare altro che fermarsi e assistere impotenti alla scena. Ilario aveva appena bloccato il pallone col piede destro. In quella domenica, nel bel mezzo di una partita, nel campo da gioco, si apriva una bella commedia familiare che per il povero Paolo aveva tutti gli elementi di una dramma. Lui non diede alcuna risposta e il padre si avvicinò.
Indietreggiò come per ristabilire una distanza di sicurezza.
Ho detto vieni qua!
Fece cenno di no col capo e compì altri due passi indietro, timoroso del suo sguardo. Il grande difensore della giornata veniva così oltraggiato. 
Il padre cercò di raggiungerlo con un scatto felino ma Paolo era troppo in giornata per essere acchiappato.
- Se non Sali adesso ti prenderai tanti di quei schiaffi… - irruppe la madre che nel frattempo si era riaffacciata al balcone.
Paolo scoppiò a piangere e le urlò singhiozzando che non voleva andare. Ma dinanzi a quei due demoni, simili alle statue che si ergevano sulle colonne dell’ingresso di villa Capuani, si fermò intimorito e si feci acchiappare dal padre. Uno schiaffo alla guancia sinistra, uno alla destra. Lo prese per mano e via per la strada del portone, senza salutare compagni e avversari. 
Tra rimproveri e pizzicotti la madre lo vestì alla meglio e appena possibile uscirono di casa. Stringendo la mano della madre a sinistra e quella del padre a destra, si recarono alla chiesa di San Sebastiano tramite il solito tragitto: la strada larga di estrema periferia, le persone nelle auto ben conciate per la messa, il viale alberato di villa Capuani sulla sinistra, chiuso da una cancellata in ferro battuto, le colonne che sostenevano i due piccoli demoni. Ogni volta che ci passava d’avanti la guardavo fino a quando non la perdeva di vista: era il peggior posto dove un bambino poteva capitare.

Balzò sulla panca di legno e si guardò intorno. Era circondato da adulti e anziani che camminavano verso sinistra o verso destra tra file di lunghe panche marroni. 
Anche questa volta ti sei addormentato! - Fece la madre in piedi, guardandolo con sguardo mediocre dall’alto in basso. - M’hai fatto fare una brutta figura d’avanti al sindaco… All’inferno finirai!
Avanti, sull’altare, Don Gino chiudeva il messale.


                                                                           Gianpaolo Roselli
                                                                               Marzo 2008

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