Pensieri di un Povero Caronte (Racconto)
"Pensieri di un Povero Caronte" è un racconto scritto nel 2008 e pubblicato per la prima volta nel 2009 sul numero 17 della Rivista "Toilet".
E' stato il mio esordio editoriale, a livello nazionale, e ancora oggi lo considero tra le mie cose più riuscite. Oggi lo propongo per la prima volta sul mio blog.
Mario sedeva sul cofano della
Panda incurante delle urla che provenivano dalla villetta. Con lo sguardo perso
nel cielo tra le lingue di fuoco fumava una sigaretta. La stringeva tra
l’indice e il medio in una mano tutta tesa. Non fumava da quando suo padre,
tanti anni prima, l’aveva beccato con una sigaretta. L’aveva spedito
all’ospedale dove gli avevano piazzato sette punti sulla fronte. Dal tempo dei
sette punti fino a qualche ora prima aveva stretto di tutto tra i denti: tappi
di penne, rametti di aiuole, stecche da ghiacciolo, chiavi, matite consumate e
quant’altro di corto e cilindrico gli era capitato tra le mani. Poi quel
pomeriggio Mimì il macellaio l’aveva chiamato per il solito lavoretto e lui,
forse per abitudine, forse per paura di deluderlo, gli aveva subito risposto di
si. Appena riattaccata la cornetta però si era chiesto che cazzo ci andava più
a fare. E così, assalito da una profonda inquietudine, durante la strada si era
fermato al primo tabaccaio e aveva comprato il suo primo pacco di sigarette.
Marlboro rosse per l’esattezza. Quelle del padre. Nei venti minuti successivi
era giunto già a tre sigarette. Avrebbe voluto fumarle tutte prima di iniziare
il lavoro. Infatti ne aveva accesa una quarta quando compara Luisa si affacciò
per urlargli che era tutto pronto. Mario gettò la sigaretta alle spalle e seguì
la donna all’interno. Si arrestò appena oltre la soglia, nel buio, travolto da
una tempesta di urla e pianti. Le parole singhiozzanti e straniere di una
donna, provenienti da oltre lo spiraglio di luce che avanti a sé squarciava il
buio, si incastravano negli incessanti e più vicini gemiti di un neonato. Erano
come due melodie che cercavano disperatamente di fondersi in una sola. Compara
Luisa, un po’ più avanti alla sua sinistra, gli indicò un vecchio tavolo di
legno sul quale era poggiata un cesto di paglia. Mario si lanciò alla volta del
tavolo, agguantò il cesto per il manico e dopo un cenno di saluto col capo a
compara fuggì via. Non si poteva proprio stare lì dentro. Ma di quell’inferno
dovette portarsi una porzione. Il neonato nella cesta continuava a piangere. I
suoi gemiti non solo coprivano le urla della donna ma erano così irritanti che
li avvertiva sin nello stomaco. Guadagnò l’auto, posò la cesta sul sedile
posteriore e partì a fari spenti. Nell’abitacolo i gemiti, amplificati dallo
spazio chiuso, gli martellavano il cervello. Pensò però che a breve il piccolo
avrebbe smesso di piangere. I movimenti della vecchia Panda l’avrebbero cullato
a dovere. Succedeva a tutti così. E così fu.
La strada del destino.
Così la chiamava. Era una via di
campagna, ridotta ad un sentiero, lungo la quale non passava mai nessuno. Forse
di giorno doveva essere frequentata da contadini, ma alla sera diventava
deserta. La faceva più volte in un mese da circa sei mesi. Niente di nuovo a
parte il fatto che quello era il primo trasporto da quando sua moglie aveva
avuto l’incidente. E non era poco dal momento che i sensi di colpa, come lupi
affamati, avevano preso già ad attaccarlo.
Fino alla volta precedente, a mo’
di scudo contro quei lupi maledetti, si era appellato ad una semplice
filosofia, così lui la chiamava. Diceva che se non lo avesse fatto lui lo
avrebbe fatto qualcun altro. Ed era vero. Quindi meglio lui. Quantomeno la paga
serviva a rendere felice un bambino. Uno su mille, cantava Gianni Morandi. Il
suo. Ma ora non poteva rifugiarsi nella solita filosofia.
Le cose erano andate in questo
modo. Dal giorno in cui si erano sposati Mario e Francesca avevano desiderato
un bambino. In dieci anni le avevano provate tutte: dottori, maghi, preghiere a
San Giacomo. Ma ogni tentativo era valso a nulla. Di adottarne uno non se ne
parlava. Chi avrebbero dovuto adottare. Un negro? Un polacco? O un figlio di
puttana, per giunta rumena, come quello che aveva dietro? Niente da fare. E poi
lui era figlio unico. Chi altro, se non lui, doveva perpetuare il sangue della
famiglia? E poi sin dai primi mesi di matrimonio le parole della vecchia madre
gli erano ritornate in mente incessanti: Quando mi dai il nipote? Poi
all’improvviso era giunto il miracolo del Signore. Francesca aspettava un
figlio. E fu proprio lei a decidere che sarebbe andata ogni giorno in chiesa a
rendere grazie al Signore per tutto il tempo della gravidanza. Ma Francesca era
una donna grossa. Infatti qualche tempo prima aveva avuto dei seri problemi
alle gambe proprio a causa del suo peso. Così al sesto mese, con il pancione
ormai evidente, il peso sulle gambe era diventato gravoso. Quel pomeriggio era
uscita a far due passi con la sua amica di sempre. Una passeggiata che avevano
subito interrotto a causa di un cielo purpureo che dall’alto della sua potenza
tuonava tremendi ruggiti. Onde evitare di trovarsi sotto un acquazzone avevano
optato per una repentina ritirata. Francesca però, passando avanti alla chiesa,
non denigrò l’idea di un furtivo ringraziamento al Signore per rispettare il
voto. Con passo affettato prese a salire la scalinata. All’ultimo gradino si
sbilanciò all’indietro e rotolò giù.
Silenzio.
Procedeva nel buio a fari spenti,
scorgendo i cigli della strada che emergevano dall’oscurità e la pianura
deserta che veniva inghiottita dalla notte. Si dice che il territorio delle
Murge, in gran parte arido e pianeggiante, sia simile a quello lunare. Ed era
vero, specie di notte, quando tutto perde il suo colore originario riducendosi
ad un nero insondabile o ad un grigio argentato. La desolazione e la quiete di
quel posto gli evocavano tanti pensieri. Nessun uomo è capace di resistere ai
pensieri se messo lì, di notte, in piena solitudine. Secondo Mario tutti hanno
un destino segnato. Dio assegna un destino ad ognuno di noi e nessuno può
opporsi. Il destino dei bambini che portava con sé era quello di finire
in una famiglia estranea o di diventare quelli che Mimì chiamava pezzi di
ricambio. Ma suo figlio non sarebbe stato certo tra loro e, per di più, fino al
trasporto precedente si era convinto che suo figlio avrebbe avuto un grande
destino. Ne era stato certo perché se l’era sentito. E per tanto avrebbe fatto
di tutto per dare a suo figlio tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Deve
essere il bambino più felice al mondo, si era ripetuto fino a qualche tempo
prima. Doveva avere una bici rosso fiammante, doveva avere la possibilità di
studiare, magari, farsi un futuro, doveva avere quelle attenzioni che suo padre
non gli aveva mai dato. Ma quella notte a fargli compagnia non ci furono i suoi
sogni e i sensi di colpa lo aggredirono come lupi affamati. Avrebbe dovuto
rifiutare. Ormai non aveva più un bambino a cui pensare. Né ora né mai. Il
dottore era stato chiaro. La caduta aveva combinato un macello nella pancia
della moglie a tal punto che non avrebbe più potuto generare figli. Insomma, il
suo futuro era andato a farsi friggere e per tanto non ne valeva più la pena di
girare di notte per la murgia, con un neonato destinato a diventare figlio o
pezzo di ricambio di chissà chi e con un senso di colpa che gli logorava il
fegato. Era un lavoro del cazzo e San Giacomo, appiccicato sul cruscotto, lo
rimproverava continuamente. Cercava di ignorarlo ma avvertiva il suo sguardo
fisso su di sé. Magari lo stava già punendo. Era insopportabile: il suo sguardo
gli traforava la pelle e giungeva sin nelle budella dove la gastrite gli
provocava un dolore lancinante. Pensò di fermarsi sul ciglio della strada e
stracciare l’adesivo. Ma rigettò subito l’idea chiedendo scusa a San Giacomo.
Va bene, disse fra sé e sé, Questa è l’ultima. Appena cedo il bambino ai rumeni
vado dritto da Mimì e gli dico: Senta, mi dispiace ma non vorrei più fare
questo…
Un tonfo e lo scossone della
macchina gli spezzò il flusso di pensieri. Quella maledetta strada era tutta
piena di fossi! Era stato così concentrato che non aveva più visto la strada.
Un istante dopo il bambino scoppiò a piangere. I suoi gemiti esplosero
nell’abitacolo insopportabili come prima. Fermò la macchina nel bel mezzo della
strada. Tanto chi vuoi che passi adesso, pensò. Uscì nella notte e i gemiti del
neonato gli risultarono più sopportabili. Anzi, deliziosi. Prese il bambino dal
sedile posteriore e lo tenne come commara Luisa gli aveva insegnato: il braccio
piegato e la mano spalancata come a far da culla. Un po’ impacciato e un po’
equilibrista si abbassò, agguantò il biberon sul sedile e lo diede a bere. Il
neonato smise all’istante di piangere e il silenzio delle Murge si impose nella
notte. Peccato, pensò Mario, Quei gemiti avevano donato un po’ di vita in quel
deserto. Tutto intorno a sé, sotto la luce argentea della luna, gli appariva
arido e vuoto… arido e vuoto come una donna che non può generare figli. Ma se
faceva attenzione poteva scorgere qualche selvaggio filo d’erba che spuntava
qua e là. Li intravedeva nella notte, oltre il ciglio della strada, appena
scossi dalla brezza notturna. Quindi infondo c’era vita anche nelle Murge. Poi
tornò a guardare il piccolo. Gli sorrise e sotto lo sguardo curioso del
piccolo, prese a fare le faccine. Alzava le sopracciglia, allargava un buffo
sorriso alla maniera di Stanlio, faceva la linguaccia. E’ bello quando c’è
vita. Così, per qualche istante, si cullò nell’idea che quello fosse suo
figlio. Infondo chi poteva vederlo laggiù. Quando finì, poggiò il bambino sul
sedile posteriore e ritornò in macchina. Guardò San Giacomo e decise che quel
trasporto sarebbe stato l’ultimo. Chissà, forse quella decisione gli avrebbe
purificato l’anima. E magari Dio lo avrebbe premiato. Infondo anche sulla
Murgia c’è vita…
Mario fermò l’auto d’avanti ai
soliti ruderi. Si trattava di una costruzione quasi cubitale di due piani. Era
l’unica struttura grossa della zona. Non era difficile individuarla. Lanciò
un’occhiata per assicurarsi che tutto fosse tranquillo. Poi abbandonò la via e
prese a procedere sul terreno, lungo il lato del casolare. Avanzò lentamente in
modo da non offrire al piccolo nuovi scossoni. Aveva ormai maturato un piede di
velluto. Girò l’angolo e come sempre trovò la Fiat Uno. Fermò di fronte alla
Uno, tra il casolare e un’altra costruzione più bassa, forse una fattoria dove
antichi signori tenevano le bestie. Era un ottimo punto che offriva ripari sia
da una parte che dall’altra. Uscì dalla macchina, prese il cesto dal sedile
posteriore e con delicatezza si avvicinò alla macchina. Non aveva mai capito di
che colore fosse. Passò accanto al finestrino del guidatore e fece un cenno di
saluto col capo. Mario non né poteva fare a meno dei saluti. Aprì la portella
posteriore e poggiò la cesta. Gettò un’occhiata alle due sagome che, ferme come
manichini, se ne stavano come ignari della sua presenza. Rivolse lo sguardo al
neonato: Ciao piccolo, farfugliò come ogni volta. Ogni bambino aveva diritto ad
un po’ di attenzioni. Chiuse la portella e si riportò nell’auto. Come d’accordo
il primo che doveva ripartire doveva essere lui. Fece marcia indietro, lanciò
un’ultima occhiata alla Uno e tornò sul viale.
E’ stata l’ultima volta, si
ripeté mentre si allontanava dai ruderi. L’aveva promesso a Dio. E a San
Giacomo, patrono del suo paese. Mimì doveva trovarsi un altro. Non doveva certo
avere dei problemi a trovarlo. Poteva mettere uno di quelli che al tempo gli
aveva fottuto il posto da Ferdinando Curzo. Un negro. O un rumeno, o un
albanese o un polacco. Tanto ne avevano a disposizione a bizzeffe. Si ricordò
il discorso con cui qualche anno prima Ferdinando Curzo l’aveva licenziato dal
lavoro nei campi. I negri e i polacchi lavorano il doppio rispetto al migliore
dei contadini di queste parti. Gli aveva detto. E vengono pagati la metà. Mi
spieghi il motivo per cui io dovrei tenerti ancora qui? E poi aveva continuato.
Ma non ti credere che ti lascio senza lavoro, non sono mica un mostro io. E
così l’aveva messo a guidare uno dei furgoncini che portavano i negri e i
polacchi nei campi. Già, lavorava ancora per Ferdinando Curzo, anche se sotto
la gestione di Mimì il macellaio, ma veniva pagato di meno. Assai di meno. Si,
era un lavoro leggero, ma non aveva scelto lui di lavorare di meno. Lui voleva
una tasca più gonfia e per questo sarebbe stato disposto a spaccarsi le ossa.
Fanculo a negri, polacchi e rumeni, che Dio li fulmini! Anche Ferdinando Curzo
diceva che quella gente non valeva nulla e per questo andava sfruttata fino
all’osso. Specie i negri che, come diceva spesso, gli avevano ucciso il padre
in guerra. E se lo dice uno che produce pomodori per tre quarti dell’Italia, se
lo dice un sindaco, se lo dice uno che l’aveva accolto meglio di come suo padre
aveva mai saputo fare, allora c’è da crederci. Tutte cose giuste. Giustissime!
Ma intanto Ferdinando Curzo si arricchiva e chi, precedentemente, aveva dato
l’anima per le sue terre, come lui, anziché avere dei premi gli veniva
abbassato lo stipendio. Ferdinando Curzo ha ragione su tutto ma su questo no!
Glielo devo dire appena…
Un ragazzino con la bicicletta
comparve dal nulla. Mario premette con forza istintiva il freno ma il ragazzino
scomparve sotto il cofano. NO! Urlò Mario. Si lanciò fuori dalla macchina e si
portò avanti tenendosi le mani affogate tra i capelli. Ma avanti alla macchina
non c’era nulla. Si inginocchiò e, pensando al peggio, guardò sotto, tra le
ruote. Niente. Ritornò in macchina accese le luci e si guardò intorno. Nessuna
traccia del ragazzino. Eppure l’aveva visto. Si, era come comparso dal nulla a
bordo di una bici rosso fiammante, quella che da piccolo suo padre non gli
aveva mai comprato. Sembrava un ragazzino felice. Già… era proprio come si era
immaginato suo figlio il giorno in cui Francesca gli aveva dato la notizia.
Così, sulla bici rosso fiammeggiante, felice e un po’ pazzerello. Si guardò
intorno e la desolazione schiacciata dalla notte lo fece tornare alla realtà.
Pensò che negli ultimi tempi aveva dormito poco. Entrò in auto e appoggiò il
capo allo schienale. Quella storia gli aveva fatto salire il cuore in gola! Ma
lì, sotto la luce accesa del cruscotto, uno sguardo tornò a bersagliarlo.
Guardò San Giacomo e deglutì. E me’ ti prego, disse, Credimi. E’ stata l’ultima
volta! Poi prelevò una sigaretta dal pacco sul cruscotto e l’accese.
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