Le promesse tradite del 2001: un ricordo di quei gorni

Il 2001 fu l'anno in cui più di altri si formò la mia coscienza politica. Fu l'anno in cui per la prima volta mi tesserai ad circolo politico, fatto che non a caso avvenne tra due fuochi: il G8 di Genova e l'11 settembre. 

Si parlava tanto in quell'anno, c'era un continuo confronto anche se raramente si traduceva in un incontro tra divisioni. 

Ad ogni modo in quel 2001 c'era nell'aria un certo idealismo, una volontà di cambiamento testimoniata anche da due casi editoriali inaspettati. 

"Il Secolo Breve" di Eric Hobsbawm metteva in qualche modo la parola fine ad un secolo che nella sua inedita velocità si era rivelato travolgente, tragico e disastroso. Il libro passava di mano in mano facendo scaturire una sorta di voglia di riscatto dal secolo e dal millennio che ci lasciavamo alle spalle. 

"No Logo" di Naomi Klein invece era ormai un best seller che arrivava anche tra le mani di chi non poteva definirsi un lettore. Fu un caso letterario che per le sue proporzioni la diceva lunga sull'atmosfera di quel periodo. 

Si diffondeva la percezione che quel capitalismo, tanto decantato dall'indomani del crollo del muro di Berlino, ora stesse creando mostruosità, disuguaglianze e ingiustizie sociali. Politici, intellettuali e persino popstar invocavano un cambiamento di rotta, politiche più sociali che controbilanciassero le conseguenze di un mercato spietato, senza regole e sempre più tendente alla disumanizzazione delle società. D'altro canto nessuno immaginava che la degenerazione che si denunciava era solo all'inizio. 

Le contestazioni al G8 di Genova derivavano proprio da questa ondata di cambiamento, contestazioni che tuttavia non si traducevano in semplici manifestazioni, ma in una vera e propria rete di associazioni (di ogni tipo, anche cattolico) e sindacati attivi e coordinati da un unico ente messo su per l'occasione: il "Genova Social Forum"

Era un dispiegamento di forze intellettuali varie ed eterogenee che si prefissava il compito di uscire alla fine del G8 con documenti ed interventi votati a modelli di sviluppo del tutto alternativi a quelli che avrebbero proposto i capi di stato. Del resto la presenza del neo eletto Bush, con la propensione bellicosa della sua famiglia, e dello stesso Berlusconi, col suo background mafioso, non lasciava molto spazio all'ottimismo. 

Bisognava farsi sentire, ora.

Il G8 quindi diventava un evento di portata storica che attirava inevitabilmente giornalisti, osservatori, attivisti e contestatori da ogni parte del mondo. Proprio per la sua risonanza nasceva la necessità di montare un'organizzazione scrupolosa, attenta e minuziosa dell'evento. Era quindi necessario approntare piani di gestione per certi versi inediti, perfetti, nonchè un'organizzazione che avrebbe dovuto evitare che le inevitabili tensioni sarebbero sfociate in qualcos'altro. 

Ne venne fuori però una città blindata, trasformata in un'immensa caserma abitata per lo più da soldatini di leva o alle prime armi, un gigantesco pollaio in cui regnavano inesperienza, paura e frustrazione (a partire dalle forze dell'ordine). Era una polveriera, insomma, in cui la situazione era già fuori controllo prima che tutto iniziasse. 

Il nostro è un Paese che spesso si rivela incapace di processare gli alti vertici, di giudicare i fallimenti dei dirigenti (nelle aziende private come negli affari pubblici) o semplicemente di intervenire al vertice delle piramidi di potere. E' una zona morta in cui la macchina statale si inceppa e nella quale i media sono soliti allestire un ring in cui le cosiddette "ultime ruote del carro" si scontrano senza esclusioni di colpi. Ne consegue dunque un colosseo mediatico in cui nel caos più totale nuovi gladiatori regalano involontariamente cruenti spettacoli di sangue e morte a masse sempre più affamate.

E mentre il popolo mediatico si divideva tra Placanica e Giuliani, come se stessimo davanti ad una partita di calcio, andava in atto quella che il vice questore definì una macelleria messicana.

Quanto avvenne nella scuola Diaz, e poi nella caserma di Bolsaneto, fu, senza mezzi termini, la più grande interruzione dello stato di diritto dal dopoguerra.


Genova divenne il vulcano di rabbia e rancore che oscurò i buoni propositi del social forum e quindi il sogno di costruire qualcosa di diverso dal secolo precedente. Difatti tutto ciò che venne negli anni successivi lo conosciamo bene, l'abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle: guerre, speculazioni finanziarie, politiche e giochi di potere volti a svilire il lavoro, delocalizzazioni, impoverimento della classe media, etc... In tutto questo I responsabili di quella carneficina hanno continuato a far carriera, e quindi danni, tra istituzioni pubbliche e private. 

Oggi viene da chiedersi cosa resta di quell'idealismo a cui il Genova social forum si ispirava. Cosa resta di quella capacità di guardare avanti e avere una prospettiva. Dovremmo chiedercelo, tutti, sottraendoci magari a tutti quei sterili dibattiti che invece vogliono dividerci e allo stesso tempo assolvere le responsabilità di chi andrebbe invece processato per crimini contro l'umanità.





Qui sotto la ricostruzione tecnica e precisa dei movimenti e delle dinamiche che portarono al disastro di Genova






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