“L’Italia chiamò”: la denuncia dei soldati sull’uranio impoverito.



L’Italia chiamò
L'uranio impoverito: i soldati denunciano
di Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo Scanni
Libro + dvd
€ 16,90




18 agosto 1996.
Bosnia-Erzegovina.
A pochi chilometri da Sarajevo.
Un contingente italiano fa brillare un arsenale illegale. Un’esplosione, il fungo di fumo che si leva verso l’alto e la conseguente pioggia di detriti che ricopre i soldati, riparati a qualche decina di metri più in là. Nessuno di quei soldati sa che gli è appena piombata addosso una pioggia di uranio impoverito.  
E’ la descrizione di un video con cui inizia uno dei primi capitoli del libro. “L’Italia chiamò”, di Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo Scanni, è una raccolta di testimonianze di persone che hanno provato a capire e che sono stati messi a tacere, di soldati che si sono ammalati e di genitori che tutt’oggi inseguono verità e giustizia. Ma è anche un’inchiesta in cui una vicenda tira l’altra poiché laddove i governi censurano e nascondono, le storie delle persone diventano la più grande forma di conoscenza in grado di travalicare dichiarazioni retoriche.

I fatti sono questi.
Nel 1996 i militari italiani partirono per la Bosnia senza sapere nulla dell’uranio, nonostante il governo italiano avesse in mano tutte le informazioni. Gli americani avevano già inviato a tutti gli eserciti alleati una relazione dettagliata e lo Shape (comando militare centrale dell’Alleanza Atlantica in Europa) l’aveva integrata con un memorandum con precise norme di condotta. In altre parole sapeva che le esplosioni di armi contenenti uranio impoverito provocano un pulviscolo di sostanze che una volta inalate o assorbite provocano problemi seri alla salute.
Antonio Sepe, papà di Luca Sepe, dice: “Ci sentivamo ogni giorno, la sera, e Luca mi raccontava tutto. Era preoccupato. Vedeva gli americani equipaggiati con tute speciali, come fossero palombari, mentre i soldati italiani operavano con la mimetica, a mani nude. A un certo punto chiese spiegazioni ai superiori, ma gli ufficiali risposero di non impicciarsi, perché quelli erano fanatici che volevano solo mettersi in mostra”. In seguito al caporalmaggiore Luca Sepe fu diagnosticato un linfoma di Hodgkin, “Un brutto tumore”, che dopo lunghe sofferenze lo portò alla morte il 13 luglio del 2004. Nei suoi organi c’erano alluminio, zinco, cadmio, zirconio, mercurio e altri metalli che possono trovarsi nel corpo solo di chi è stato in territori di guerra.

A rendere l’idea di quanto le istituzioni militari italiane si siano impegnate a fare dell’oscurantismo c’è la vicenda di Domenico Leggiero, pilota militare, che dopo aver visto un suo caro amico rientrare dalla Bosnia con un tumore cerca di capirci qualcosa. Una sua prima osservazione è illuminante: “In Italia il problema dell’uranio impoverito si pone alla fine degli anni Novanta, e non prima, perché proprio allora le nostre forze armate subiscono un cambiamento interno, e alle funzioni di difesa del territorio nazionale si aggiungono specifici compiti di polizia internazionale. Insieme nasce l’esigenza di dare ai soldati una tutela proporzionata all’impegno richiesto nelle missioni estere”. Viene da chiedersi allora se il governo italiano, o le lobby, non voleva diffondere le direttive dell’alleanza atlantica per non investire ingenti somme nel rimodernamento di tutto l’equipaggiamento.  
Ma torniamo a Leggieri. Insieme a pochi altri commilitoni ripone le sue preoccupazioni nei maggiori riuscendo però a rimediare solo accuse da incosciente e contestatore. Arriva a denunciare il problema anche a Striscia la Notizia. Ma la sua attività si esaurisce in poco tempo: il suo amico muore e lui, pilota con tante ore di volo, viene prima spedito a trecento chilometri da casa a stirare camice con uno stipendio da fame e poi costretto ad un pensionamento anticipato.

Ad ogni modo il 22 novembre del 1999 l’Italia si adegua allo standard Nato emanando le prime norme di protezione. Ma la faccenda è tutt’altro che chiusa.
E’ il caos. Le malattie giungono agli stadi finali e uno dopo l’altro i soldati tornati dalla Bosnia con un tumore, si spengono. Le famiglie presentano un esposto alla magistratura per chiarire se c’è un nesso tra le missioni in Bosnia e Kosovo e la loro morte. Allo stesso momento l’opinione pubblica familiarizza con il concetto di “Sindrome dei balcani” e i vertici della politica non possono più nascondere la realtà dei fatti. Il 21 dicembre del 2000 il ministro della difesa Mattarella è costretto ad ammettere che in Bosnia la Nato ha usato uranio impoverito.
Tutto sembra andare verso un’innegabile constatazione ma nel 2006 la relazione conclusiva della Commissione preposta ad appurare le connessioni tra le patologie e le missioni spiazza i militari. Si afferma che non è possibile stabilire un nesso tra le due cose. In altre parole si afferma: è vero che è stato usato uranio impoverito, come è vero che le armi all’uranio, una volta esplose, provocano quel pulviscolo che se inalato o assorbito provoca gravi danni, ma resta impossibile per loro stabilire che quelle patologie siano state contratte proprio in missione.
Intanto i militari continuano a morire e le famiglie intentano cause di risarcimento fino a giungere al 2008, quando la commissione, confermando la relazione precedente, ammette la presenza di concause legate ai teatri operativi nella morte dei soldati e determina il diritto a ricorrere a strumenti indennitari.

Il libro, e il dvd allegato, offrono un’inchiesta attenta e puntuale, facendo riferimento a documenti ufficiali, siti web, comitati, interviste. E tante storie che da ogni punto di vista fanno capire le reali dimensioni dell’inganno.
Oggi la “sindrome dei balcani” continua a mietere vittime e ad urlare il suo orrore dal silenzio in cui l’abbiamo relegata. Un silenzio indotto anche dalla linea ufficiale del Ministero della Difesa, secondo il quale non esiste alcuna prova scientifica che l’uranio impoverito sia collegabile ai casi di malattia e morte dei soldati, pur ammettendo, per paradosso, la presenza di nano particelle nel corpo dovute alle esplosioni.
D’altro canto un dato inquietante fa presagire nuova e macabri risvolti: in Aghanistan e in Iraq è stato usata una quantità di uranio ancora maggiore di quella che fu usata nella guerra dei balcani.

“L’Italia chiamò” è una lettura utile non solo per il dibattito sul nucleare. Ricordiamo infatti che quella stessa materia che ha ucciso tanti soldati, ovvero l’uranio, dopo essere stata bruciata dalle centrali nucleari viene stipata per secoli in grotte e caverne poiché non esiste ancora un modo per smaltirle. Ma al di là del dibattito nucleare “L’Italia chiamò” va letto perché è una di quelle inchieste che, elaborate in modo brillante, svolgono il ruolo sociale di mantenere aperti certi interrogativi.
Il punto è che nella seconda metà degli anni Novanta si sapeva dell’uranio impoverito, si sapeva delle sue fatali conseguenze sui nostri militari, si sapeva tutto quanto ma nonostante ciò le autorità italiane hanno taciuto, arrivando a tenere un comportamento mafioso anche davanti alle numerose morti.
Occorre conoscere le responsabilità e i nomi di chi ha taciuto, le dinamiche di un potere degenerato. Per questo “l’Italia chiamò” va letto. Leggerlo è il primo atto che si possa fare affinché la giustizia intraprenda il suo cammino. Leggerlo, infine, è l’atto più umano che si possa compiere per essere vicini a tutti coloro a cui lo Stato ha voltato le spalle. E sono tante, più di quelle che l’inchiesta racconta.  
Al funerale il comandante del distretto militare di Napoli l’ha notata e mi ha chiesto se poteva far avvolgere la bara di Luca nel tricolore. Si comandante, gli ha risposto, potete farlo, poiché mio figlio era degno della bandiera italiana. Ma forse voi non lo siete altrettanto”.

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