Millecinquecento pagine bianche
Gli stessi giornalisti non hanno potuto fare altro che raccontare quanto è successo, senza abbandonarsi in vane considerazioni. Del resto potremmo spendere tutte le parole che vogliamo ma alla fine sarà sempre il silenzio, quello che intercorrerà tra una parola e l’altra, a far ruotare a vuoto la giostrina dei perché.
Perché?
Breivik è un ragazzo che ha scritto per diversi anni un testo di millecinquecento pagine argomentando con una certa lucidità una volontà di distruzione e assurde rievocazioni medievali.
E’ un ragazzo che ha saputo mettere su una minioperazione di marketing culturale costruita, come di tradizione, su immagini inquietanti e minacce inventate e sulla creazione di un salvatore.
E’ un ragazzo che ha progettato un attentato sin dalla base, cioè dalla costruzione degli ordigni, riuscendo poi efficace.
Alla luce di tutto quanto Breivik non può essere un pazzo e un’eventuale insanità mentale sarebbe una prognosi che, in fin dei conti, ci abbandonerebbe comunque sulla giostrina dei perché. I pazzi non sono così razionali, soprattutto quando sono i primi a doversi sporcare le mani.

Perché?
Possiamo solo pensare ad una volontà di distruzione che seppur diffusa in ogni angolo del mondo, talvolta tende ad accentuarsi in alcuni individui. E’ quella stessa volontà che ci spinge ad essere contro qualcosa e non a favore di qualcos’altro, che chiusi tra le mura domestiche ci spinge a schematizzare il mondo, che ci spinge a coltivare pensieri oscuri con cui poi alimentare la belva primitiva che è in noi. E’ quella stessa dinamica cerebrale che portò alla strage di Columbine, immortalata nel film Elephant di Gus Van Sant. Insomma, è una volontà di distruzione, conscia o inconscia, che trascende da ogni visione della vita, da ogni dichiarazione di intenti, da ogni pretesto.
Siamo esseri umani e in quanto tali prendiamo coscienza del male e, subito dopo, riflettiamo su come evitare che quello stesso male si ripeta. E’ un’illusione, ma un’illusione che ci rende immortali. Per questo, forse, da un bel pezzo abbiamo capito che l’unico modo che abbiamo per arginare questa volontà è parlare, è vivere, è spingersi verso gli altri. Esattamente come stavano facendo i ragazzi di Utoya.
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