Sotto il segno di Arafa, il generale di Bengasi

Abbiamo perso in Iraq. Non è stata una sconfitta pubblicizzata ma fa pensare una delle prime mosse di Obama: ritirare le truppe dall’Iraq per riversarle in Afghanistan. Come si diceva in un post precedente (Cuore di tenebra) l’Afghanistan è diventato un diversivo per distrarre l’opinione pubblica dal fallimento iracheno e dalla tragedia di cui siamo stati artefici. Questa non è una critica ad Obama dato che ereditare il mondo dalle mani dei Bush sarebbe stato problematico per chiunque, ma è giusto un’osservazione su quanto sia rischioso aprire un nuovo fronte.
Dunque, guerra o no guerra, questo è il dilemma. Per provare a risolverlo dobbiamo dire che la Libia non è l’Iraq, o l’Afghanistan. Non abbiamo bisogno di inventare di sana pianta qualche motivo per muovere guerra e ritrattare tutto dopo qualche anno (è tragicomico sentir dire da Frattini “la democrazia non si esporta”; Kabul e Baghdad ringraziano). Insomma, non si tratta di una guerra al terrorismo. Il motivo per una congiunta azione militare c’è ed è una di quelle occasioni in cui scoprire se le Nazioni Unite servono realmente a qualcosa. Il popolo è insorto contro un dittatore al potere da oltre quarant’anni. Il popolo è insorto contro un dittatore che li affamava. Quando un popolo insorge vuol dire che sta davvero alle pezze. E allora forse è il caso di sostenere questi moti anche militarmente.
Ma, approvato il conflitto, è lecito chiedersi se questa guerra non si trasformerà nella solita corsa al petrolio. E parlando di petrolio si finisce inevitabilmente fuori dal caso Libia per entrare dritto nelle nostre case.

Non sono i missili di Gheddafi, né le sue minacce a preoccuparci. Il maggior pericolo proviene dalla nostra propensione a commettere gli stessi errori. La minaccia più grande è quella di compiere ogni scelta all’insegna dell’immediato. L’immediato è il demone di cui dobbiamo liberarci e il petrolio è ciò che più lo rappresenta.
Quando scoppia una guerra un’altra domanda che è lecito porsi è se si sta facendo qualcosa per evitare il ripetersi di una situazione simile a quella presente. Non ci riferiamo alla solita demagogia sulla costruzione di un mondo migliore. Lo sappiamo che gli Stati avranno sempre un interesse rispetto al quale azzannarsi. Ma ci riferiamo a quei cambiamenti che dobbiamo attuare per costruire un nuovo futuro.
Quello che stiamo vivendo è un periodo fatto di guerre, crisi, catastrofi e dubbi che di fatto mettono in discussione tutto il mondo così come l’avevamo costruito fino a pochi anni fa. In altre parole viviamo un periodo in cui non ci è data altra scelta che effettuare dei cambiamenti sin nel profondo delle nostre società e delle nostre coscienze. Non possiamo fare altro che ridisegnare le nostre società. Per questo motivo la Libia non è solo una guerra, ma un bivio tra il soddisfare bisogni immediati o pensare al futuro.
Rimaniamo nel campo degli interessi.
Un’eventuale corsa al petrolio provocherebbe un altro danno. Le Nazioni Unite, l’occidente e tutte le forze in campo subirebbero una perdita di autorità avanti alla comunità internazionale e un aumento esponenziale di nemici. Infatti un’altra questione fondamentale della nostra epoca è smettere di pensare solo al nostro “guardino” e agire sempre in riferimento ad esso. Accompagnare la Libia in questo capovolgimento di regime, e quindi far nascere uno stato più civile e democratico, può fare bene a chiunque. Potrebbe ridurre le infiltrazioni di fondamentalisti nel mondo arabo, o inaugurare nuove aree commerciali, giusto per citare due vantaggi.

E’ proprio dall’esempio di Arafa che tutti dobbiamo ripartire. Dobbiamo guardare tutto ciò che per noi rappresenta il futuro e poi scegliere da che parte stare. Si, perché le crisi, come in Libia e in ogni angolo del pianeta, sono delle trasformazioni ad un tratto fisiologiche che offrono una possibilità. L’esito di questa possibilità dipende dalle scelte che facciamo.
Buona guerra a tutti.
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