Il racconto della mia Tregiorni all'Acatraz Metal Fest (Courtrai - Balgio)

L'11, 12 e 13 sono stato al grande Alcatraz Metal Fest, nelle Fiandre.  Per Lumeen.it il racconto di questa folgorante, orgiastica e metallara Tre giorni. 

Le Fiandre sono una terra incantata e silenziosa, abitata da borghi medievali dall’atmosfera fiabesca, chiese imponenti e gotiche, palazzi splendenti di raffinate architetture e fiumi d’acqua che si insinuano candidamene nelle città. Vecchio e nuovo, natura e artifici, culture francesi e fiamminghe, qui tutto convive in un’armonia e una discrezione uniche.
Ma a questo mondo non esistono calma e silenzio senza un rito propiziatorio ed esorcizzante che ne esalti gli opposti. Proprio qui, nell’estrema periferia della medievale Kortrijk, ogni anno un vulcano di musica e convivialità erutta per tre giorni tutta quel magma che arde appena sotto il verde rigoglioso. L’Alcatraz Metal Fest è un’istituzione in Belgio e di questo ce ne accorgiamo non solo dalla massiccia partecipazione, bensì anche dall’appassionato coinvolgimento degli stessi spettatori: musica, birre, abbigliamenti a tema e crowdsurfing come se non ci fosse un domani. Ad accorrervi persone di ogni generazione, dai diciotto ai settant’anni, a volte accompagnati da rispettive famiglie e giovani leve, eredi di una passione che qui sa quasi di religiosità o stile di vita. Nelle doverose gite mattutine, tra Brugge, Gand o la stressa Koutrijk, si scopre come l’atmosfera dell’Alcatraz abbia contagiato l’intera regione: si incrociano gli inconfondibili metalhead, con cui ci si scambia uno sguardo di saluto e intesa.

Venerdì 11 agosto
Nel pomeriggio la navetta nel dipartimento fieristico ci porta in pochi minuti all’ingresso. Il tempo di esibire il biglietti e legarci il braccialetto al polso e siamo finalmente dentro all’unico grande carcere al mondo che rende liberi.
Di fronte a noi il presidio, un enorme stand a forma di caserma volto a creare un’area che dopo scopriremo conviviale e alcolica. Sulla destra si leva lo Swamp, la palude, un palco di medie dimensioni incastonato all’interno di un enorme tendone che fa da tetto a stand di birre e ad una pavimentazione in legno per qualche migliaio di persone. Come ci avevano detto due belga in aereo, ti accorgi di essere arrivato in Belgio dalla pioggia. Ora non piove ma lo farà. Sulla sinistra si allunga una distesa verde, già popolata da migliaia di persone fino al monumentale main stage, precisamente the Prison. E’ la riproduzione di una facciata carceraria con tanto di torrette d’avvistamento da cui, a ritmi di musica, si scatenano folgoranti fiammate. Una delle due mascotte del festival, la guardia carceraria marciante a gambe storte e con la chitarra elettrica, sembra invitare ad un ebbro baccanale. Due maxischermi occupano le parti laterali. Al centro si apre l’enorme palcoscenico che ha già ospitato i DYSCORDIA e i PRATTY MAIDS
.


 

Seguiamo la fiumana del momento che ci porta dritto sotto lo Swamp. Sul palco una scenografia fatta di vetrate gotiche a mosaici a tema demoniaco fanno crescere l’attesa per la nuova band. Entrano uno alla volta e David Bower si presenta per ultimo con la sua espressione grottesca, la corona di spine e il cappotto rubato da qualche dandy londinese. Gli altri membri non disdegnano di assecondarlo con coreografie perfettamente sincronizzate: gli storici HELL si presentano sin dai primi minuti con tutto il loro irruente e peculiare impatto scenografico. Giù dal palco è il delirio: vortici e poghi si scatenano sfidando le leggi della fisica, su di essi scorrono i crowdsurfer, spinti sulle teste di tutti come legna su un fiume in piena fino alle transenne. Qualche pausa, giusto per gustare le arcane e spettacolari scenografie degli HELL composte da trampoli, maschere, fiamme e danze indemoniate, e poi di nuovo in battaglia.



Si susseguono le band, gli ingressi eruttano sempre più spettatori, stand di cibi e bibite, cd, vinili e merchandising di ogni tipo, diventano punti da cui si formano code e gruppi. Calano le tenebre, è il caso di dirlo, è sul Prison salgono i mitici GHOST, ultimo nome ufficializzato dagli organizzatori.
Tobias Forge si presenta da subito con la sua tenuta papale mentre intorno a lui i membri, con la tradizionale mascherata argentata, si scatenano con veemenza e presenza scenica, balzando a ritmo di musica dai gradini del palco. Ognuno di loro è uno spettacolo che riesce a conferire maggiore energia ad ogni pezzo. Sono novelli clown di questo Grand Guignol musicale, alle prese con gag e malefici dispetti (come quando uno dei chitarristi si esalta strimpellando il riff di “Shine On Your Crazy Diamond”). Nella scaletta c’è tutto il meglio dei tre album finora prodotti: “Ritual”, “Mummy Dust”, “He is”, “Cirice”, “Year Zero”, eccetera. E’ un crescendo di intensità e sontuosa fascinazione, uno spettacolo di heavy metal misto a teatro grottesco (grazie ad un Forge che sembra sempre più uscito da un horror degli anni Venti) che culmina con festeggiamenti pirotecnici.
Ma la giornata non è finita: nello Swamp DIRKSCHNEIDER rinvigorisce i cuori di un pubblico, in maggioranza di mezza età, con il suo repertorio più incalzante e implacabile, capace di riportare a nuova vita anche il settantenne con l’ennesima birra in mano e le mille cicatrici di una vita (ce ne sono, eccome!). E’ proprio qui che ci accorgiamo che se per noi, trentenni, DIRKSCHNEIDER è un pezzo di storia del rock in qualche modo sempre incandescente, per questi uomini è molto di più.

Sabato 12 agosto
Nonostante la massiccia partecipazione e lo spirito con cui è vissuto, l’Alcatraz è un festival che fuori dal Belgio gode senza dubbio di una fama minore rispetto ai grandi raduni come il Wacken e il Graspop. Di questo ce ne accorgiamo dalle espressioni di stupore e stima che compaiono sui volti dei curiosi quando diciamo loro di essere italiani. “Rispetto”, dice uno mettendosi la mano sul cuore. Da queste parti la gente è parecchio ospitale e socievole. Specie dopo qualche birra.
E’ il secondo giorno e da oggi si fa sul serio. E’ sufficiente spulciare il programma, scoprendo per esempio che i RAGE aprono già alle 10.45, (scelta non certo felice secondo molti partecipanti) per farsi un’idea di come stanno le cose. Alle 17 puntale cessa di piovere e sul The Prison salgono gli ICED EARTH. E’ da subito una tempesta di puro heavy. Pochi effetti speciali, pochi trucchi scenici come vuole la vecchia scuola: il loro concerto è una acrobazia sonora dopo l’altra, un rapido e implacabile susseguirsi di pezzi (storici ma anche dell’ultimo album) che non danno scampo, una trama sonora articolata e graffiante sulla quale Stu Block, monumentale e virtuoso, alterna acute saette al suo robusto e severo cantato.



E’ un pomeriggio mitragliante e infuocato, uno di quelli in cui ci si chiude temporaneamente nelle trincee per poi rispuntare al primo nuovo grande fuoco, un fuoco sonoro che qui riesce estasiante e rinvigorente. I TESTAMENT sfornano il loro repertorio da battaglia come un mitra e lui, Chuck Billy, sempre con la mezz’asta del microfono a mimare una terza chitarra fantasma ma onnipresente. Billy è visibilmente emozionato dalla felice e vivace concitazione che si scatena appena giù dal palco ed è proprio lui, ad un tratto, a dirigere i giochi: incita il pubblico a dividersi in due fazioni contrapposte, lancia la bacchetta, appena rubata dal batterista, nel centro ora vuoto. E’ il via: le due fazioni corrono l’una contro l’altra fino ad impattarsi, anzi a mischiarsi. Se all’Alcatraz i metalhead fanno parte tutti di un’unica famiglia, il wall of death ne è la celebrazione più gloriosa.



A seguire i VENOM di Cronos infiammano, musicalmente e letteralmente, lo stesso palco. Ormai si va a ritmi serrati e il pubblico è costretto a fare delle scelte. La vecchia guardia, sempre forte e vispa, con le giacce di jeans interamente rattoppate da loghi e mascotte di gruppi e album, o con t-shirts di band vecchie o nuove, con qualche capello bianco e la pancia tonda, rimane a scatenarsi avanti all’inferno di Cronos. Tutti gli altri, noi compresi, ci lanciamo verso lo Swamp.
ABBATH, fresco di uscita dagli IMMORTAL e della ridicola caduta in Slovenia, si presenta nel buio del tendone col suo tradizionale face painting e con la scura armatura borchiata. Nel buio, appena squarciato da coni di luce blu notte, prende a sputare fuoco come un figlio di un’era remota e pagana in cui il fuoco, nella sua sacralità, diventa rito e spettacolo allo stesso momento. Ma quest’aria arcana e solenne viene infranta dopo il primo pezzo con frasi stridule e incomprensibili dirette al pubblico, uno scherzo grottesco e isterico che fa di lui una parodia di sé stesso. E il pubblico ci sta alla grande, salutandolo con le corna e giochicchiando con palloni gonfiati che saltano qua e là tra gli ormai immancabili crowdsurfer. Ma scherzi a parte, qui si fa grande musica e proprio per questo non possono certo mancare i classici degli IMMORTAL come “One by One” e “Tyrants”.



E’ un tour de force. ABBATH ha appena salutato col suo scream mentre sul fronte opposto, in un palco dominato da vampe che squarciano la notte i SAXON riportano il pubblico dell’Alcatraz alle radici del metal. Una carrellata di classici, dagli anni Settanta fino a pezzi migliori di “Battering Ram”, intervallati da brevi introduzioni e aneddoti raccontati da un Biff, qui affabulatore più che mai, con quell’aria da divoratore di strade mista ad certo un fare raffinato. Conclude con “Pricess of the Night” indossando la giacca di jeans, interamente rattoppata, ricevuta da uno dei suoi attempati fans ora concentrati appena sotto il palco.



A concludere la giornata, in un’atmosfera notturna e solenne senza variazioni di tema, gli americani WOLVES IN THE THRONE ROOM. Il loro è un black intenso e martellante, selvaggio e virtuoso allo stesso tempo. Sul placo, come sacerdoti di un rivoluzionario e religioso neoprimitivismo, generano una magia oscura capace di far cadere in trance il pubblico rimasto. Si riconoscono appena le loro sagome, talvolta inermi e talvolta colpite da ritmi indiavolati. La tastierista alle loro spalle è una forma sinuosa che culmina in una folta chioma e che si piega in un incessante e irrefrenabile headbanging. Non interagiscono, non scalpitano, non fanno nulla che possa minimamente far cadere l’atmosfera e tirarli fuori da quello stato di trance. E proprio con loro, e la loro tenace forza selvaggia, alle due di notte finisce anche questa seconda giornata.

Domenica 13 agosto

L’Alcatraz non è un affare per bambini. Anzi si, lo è. Il pubblico è decisamente eterogeneo e va dagli adolescenti ai metallari attempati, dalle comitive di ventenni alle famiglie con tanto di bambini a seguito, provvisti di cuffie a difesa dell’udito. Per dirla tutta non vi è un concerto in cui si possa trarre un’idea di quali possano essere i gusti prevalenti di una fascia d’età: tutti ascoltano tutto, è uno scenario stupendo che si ripete ad ogni concerto. E così, giusto per farsi un’idea, il terzo giorno, quando il calendario prevede quasi in totalità la presenza di band degli anni Novanta, dalle sonorità decisamente diverse da quelle classiche, si vedono sessantenni con giubba di jeans, corredata da mille toppe, avvicinarsi zoppicanti al palco appoggiati alle loro mogli, a loro volta con immancabile chiodo. Dalla resistenza che oppongono al tempo e alla vecchiaia, dalla passione che anima i loro occhi e i loro movimenti, sembra di avere davanti dei moderni guerrieri nordici che trovano la celebrazione del proprio spirito proprio nell’heavy metal. ENSLEVED, TRIVIUM, I AM MORBID (qui al posto degli sbadati MORBID ANGEL), loro sono sempre in prima fila. Vi è uno in particolare, basso, tozzo, sempre a torso nudo, dal volto solcato dalle rughe e dai capelli lunghi e bianchi, che avrà accumulato in questa tre giorni un centinaio di viaggi sopra le teste del pubblico. E’ uno di quei volti sempre presenti che il nostro occhio elegge a mascotte. Proprio durante gli ENSLEVED un padre e un figlio emergono dalla folla allontanandosi dal palco. Ad un tratto il figlio si guarda attorno confuso e timidamente indica al padre, alle sue spalle, di seguire alla volta dell’uscita dal tendone. Il padre, sulla cinquantina, con un sorriso felice ed inebriato dalla musica, gli fa cenno di no col capo per poi indicargli la direzione del palco. Questi allora, travolto da una nuova ondata di euforia, si rituffa indietro al cospetto della band. “Qui sono tutti pazzi”, ci vien da dire ridendocela. Siamo colpiti da questo senso di festa esagerata, una di quelle feste a cui non si può rinunciare e a cui si deve dare il massimo. Ma anche una di quelle in cui tutti finiscono per interagire col primo che capita come mossi da un senso di fratellanza. Punto focale di questa festa è il Presidio, un’area intermedia tra i due palchi dove si concentrano migliaia di persone in piedi o sedute ai tavoli, gustando birra (qui si trova un piccolo assortimento di quello che il Belgio propone di meglio all’intera umanità), ascoltando la musica che il dj di turno propone, ballando o salutandosi in qualche modo con un po’ tutti. Da questo punto di vista la scena metal non ha eguali e l’Alcatraz ne è l’ennesima conferma. Un altro tizio brillo, sulla cinquantina, si lamenta con una giovane coppia di giapponesi, comodamente seduti su delle spiaggine, di DORO e di quanto lo infastidisca, anche se più in là, in prima fila, un esercito di donne di mezza età intonano ogni singolo pezzo con negli occhi il rapimento di quanto avevano vent’anni.



Sul palco dello Swamp campeggia una doppia cassa, che porta le immagini di due album ormai pietre miliari: uno è “Irreligious”, l’altro “Wolfheart”. A pochi mesi dall’uscita del nuovo album i MOONSPELL, come subito precisato da Fernando Ribeiro, fanno il pieno di energia gotica portando in tournèe i pezzi dei loro due album migliori. C’è un’atmosfera incandescente, sopra e sotto il palco, un entusiasmo che per certi versi si nutre di quel romanticismo oscuro tipico degli anni Novanta e che ora si è depositato nei cuori di tanti. La presenza scenica di Ribeiro e dei suoi compagni è esuberante, le scenografie, seppur costruite su semplici accorgimenti come i laser azzurri che dalle dita del cantante squarciano il buio, sono un enigmatico incanto, i pezzi, uno dopo l’altro, nel pubblico diventano cori da intonare dalla prima all’ultima parola. I MOONSPELL sono molto amati e loro ricambiano con una superbia presenza e un’affascinante teatralità. La loro mediterraneità, più unica che rara, coinvolge ogni presente al punto da fare di questo concerto forse lo spettacolo a nostro parere più sentito e vissuto dell’intero festival.

Sul lato opposto dell’area, laddove si erge il monumentale main stage, in concomitanza con il bis dei MOONSPELL, il palco si rivela interamente rimodellato da un’imponente e colossale scenografia: un enorme elmo vichingo, con tanto di robuste corna, campeggia al centro della scena. Su di esso monta la batteria. Ai lati si arrampicano due scalinate che portano dritto su un ponte che scorre tra la batteria e il telo, la bellicosa copertina di “Jomsvicking”. Tra mille spruzzi di fiamme che saettano da ogni dove gli AMON AMARTH infuriano nell’ennesima battaglia. Sono sempre uno spettacolo e, si sa, ad ogni tournée il loro potere incantatore cresce sempre di più. Tra un classico e l’altro, intervallati da pezzi dell’ultimo album, spuntano guerrieri vichinghi che duellano tra i membri della band, o campeggiano minacciosi sulle scale, e giganti draghi gonfiabili che Johan Hegg affronta come un redivivo Thor a colpi di martellate. Appena sotto, con grande piacere degli addetti alla sicurezza, un fiume in piena di crowdsurfer attraversa la vastità della folla fin sotto il palco.



E’ un finale a tamburo battente, una perla dopo l’altra a cui non ci si può sottrarre. Nello Swamp i PARADISE LOST, anche loro ormai prossimi di nuova uscita, capovolgono ancora una volta l’atmosfera del concerto con loro dark gothic metal di stampo “Draconian Times” (senza disdegnare perle di altri album). La loro è una presenza scenica più discreta (non poteva essere altrimenti) ma incisiva e mordente come il loro sound. Il pubblica intona i loro pezzi con lo stresso trascinamento e la stessa trance già vista nei MOONSPELL. Sarà l’effetto dell’undeground made anni Novanta.



A chiudere questa celebrazione pagana e corale a suon di metal, in tutte le sue sfaccettature, i KORN con la loro scenografia iperluminosa e i loro classici, un vulcano di luci e coreografie di mille fari danzanti e isterici. In quest’ultimo atto la folla non può che essere copiosa, più del solito: tra chi conduce la sua ultima battaglia tra le prime file, chi sosta nelle retrofile gustandosi lo spettacolo con una birra o, ancora più dietro, chi siede sul verde, il concerto esaurisce questa fantastica e orgiastica tre giorni. Lo spettacolo pirotecnico di rito segna la fine dell’edizione 2017, la decima per l’esattezza.

Con un certo senso di malinconia che sopraggiunge puntuale, con quella sensazione mista tra piena soddisfazione e repentina nostalgia, inizia l’esodo verso l’uscita. Siamo entrati come singoli individui, ora usciamo come un’unica grande famiglia. E’ la sensazione che ci si porta dietro quando un festival è riuscito. Si metta l’anima in pace il cinquantenne brillo che si lamentava di DORO con i giapponesi, poiché su una cosa la cantante teutonica aveva ragione: “We are metalheads”. Qualcuno temporeggia per farsi un’ultima scorpacciata visiva della folgorante e spettacolare follia che lo attornia, o per curiosare cosa sta accadendo sul palco (si sente qualcuno fare una dichiarazione di matrimonio ai microfoni). Qualcun altro si siede a terra per un’ultima birra in compagnia. Qualcun altro ancora giace per terra per qualche birra di troppo (del resto siamo in un Paese famoso proprio per le birre). Ad ogni modo le navette, appena fuori l’area camping, sono già pronte per il trasbordo delle migliaia di metalheads! Ma che aspettino pure…






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