Il cadavere di Golia e i sensi di colpa di Davide


Ogni guerra finisce non prima di aver mostrato la sua ultima grande atrocità, un’atrocità che ne diventerà in qualche modo il simbolo. Noi, in Italia, ne sappiamo qualcosa proprio con piazzale Loreto. Di fatto i cadaveri di Mussolini e della compagna appesi a testa in giù, esibiti e pestati, sono diventati l’emblema della fine del fascismo. Quasi settant’anni dopo la stessa sorte è toccata a Gheddafi.

Ora, mentre le immagini del cadavere fanno il giro del mondo, giornalisti, intellettuali, opinionisti e filosofi si chiedono se è giusto diffondere simili documenti. O, ancora, se è giusto riservare un simile trattamento a degli uomini, pur essendo stati dei dittatori sanguinari. Lo stesso Enrico Vaime, in uno dei suoi editoriali all’interno della trasmissione Coffee Break, ha toccato questo nervo condannando sia l’uccisione dei dittatori sia la diffusione delle relative immagini.

E’ vero.
Ciò che abbiamo visto negli ultimi tempi è alquanto raccapricciante.
Per una volta però va detto che scene del genere non possono essere equiparate agli orrori che il giornalismo e la tivù nostrani ci mostrano ogni giorno. Non stiamo parlando delle riprese morbose di un reality show, né della solita cronaca nera, bensì di una guerra di cui noi italiani siamo stati tra i protagonisti. Non possiamo mettere tutto sullo stesso piano, come invece fa Vaime, poiché a differenza di ogni altra notizia, la guerra può solo esibire facce inquietanti.

La guerra è guerra!
Per quanto quest’affermazione possa sembrare scontata, resta comunque l’unica capace di spiegare quanto stiamo vedendo in questi giorni.
Il punto è che possiamo sforzarci di regolamentare la guerra, di mantenere una parvenza di giustizia all’interno dei conflitti, di limitare ingenuamente i danni, o di porre regole di gioco, ma la verità resta una: la guerra è tutto ciò che è opposto all’etica umana. Quando essa scoppia allora saltano gli ordini, i valori e qualsiasi altro principio. Ciò che prevale è una serie di mostruosità derivanti dalla smania di potere, dalla morte e dal bisogno di sopravvivere.

Certo, dalle poltrone delle nostre case non possiamo non dire “E’ cosa brutta ammazzare un uomo, anche se questi è stato un usurpatore bastardo”, non possiamo non dire “Esibire un cadavere a mo’ di trofeo è barbarico”,  ma crediamo sul serio che in simili contesti si possa ancora parlare di ciò che è civile e ciò che è barbarico?
Al di là di ogni morale il male torna sempre indietro. E chi lo subisce, prima o poi, alla migliore occasione lo restituirà al mittente non per un desiderio di vendetta ma per una natura umana da cui nessuno di noi può fuggire. La rabbia è un magma che arde dentro di noi, magari nella totale inconsapevolezza. E’ lì che brucia, alimentandosi magari con la violenza e la superbia che ci viene riservata ogni giorno. E noi siamo tutti vulcani che, iniziando ad accumulare magma, siamo destinati a esplodere.
Non sappiamo chi ha ucciso Gheddafi. Qualcuno dice che sia stato un ragazzino ma probabilmente se non l’avesse sparato lui l’avrebbe sparato qualcun altro. Doveva succedere perché è la naturale conseguenza di un orrore che è stato immesso in tutti i libici.
Per tanto il cadavere di Gheddafi, come allora quello di Mussolini, ci mostra la vera faccia della guerra. Ci mostra un’assurdità che assomiglia ad un cane rabbioso: una volta sciolto non c’è più modo di frenarlo se non aspettare le estreme conseguenze. E’ brutto pubblicare certe immagini, diffonderle ai quattro venti, si, ma esse sono il volto delle nostre azioni, legittime o meno, e rappresentano un obbligo a cui non ci si può sottrarre.

Un aneddoto.
Uno dei nostri compagni si chiamava Ciccio. Era un tipo piuttosto rissoso e francamente nessuno voleva avere grane con lui. Insomma era uno di quelli che oggi vengono chiamati bulli. Infastidiva molti di noi tra cui un ragazzino, un certo Francesco (scusate l’omonimia).
Francesco era un tipo con qualche problemino, soffriva di un lieve ritardo, ma anche lui era un tipo forte. Era buono, si, ma conveniva non provocarlo.
Noi tutti, timorati di Ciccio, ci schierammo con Francesco trasformandolo quasi nella bandiera di una piccola rivolta. Una mattina Ciccio prese a insultarlo per l’ennesima volta e noi tutti invitammo questi a reagire. Allora Francesco gli piazzò un bel gancio sul naso. Fu un colpo così ben assestato che in tutta la classe risuonò il rumore del setto nasale colpito dalle nocche della mano.
Ciccio cadde per terra. Quando si rialzò, qualche secondo dopo, aveva il naso cosparso di sangue e gli occhi già grondanti di lacrime. Impressionati sia dal colpo di Francesco sia dalla faccia di Ciccio corremmo tutti a soccorrere quest’ultimo e additammo vigliaccamente Francesco per la sua violenza.
La maschera di lacrime e sangue di Ciccio ci raccontava del prezzo che noi tutti avevamo pagato per quel conflitto. A guardarlo ci sentivamo in colpa  ma, a pensarci, non potevamo certo stare lì a subire in continuazione l’arroganza del bullo. Per il resto, ogni Resistenza ha il suo prezzo. 

Auguri al popolo libico.

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